domenica 4 novembre 2012

Decameron, V, 4: La novella dell'usignolo



Decameron, V, 4: La novella dell’usignolo

Quinta giornata: amori felici. È qui che troviamo collocata la novella nota come quella “dell’usignolo”, illustrata da Filostrato. La comicità e il lieto fine delle novelle narrate in tale parte del Decameron si contrappone nettamente alla tragicità e alla disperazione delle novelle della giornata precedente.
Il giovane narratore intende raccontare di “uno amore, non da altra noia che di sospiri e d’una breve paura con vergogna mescolata a lieto fine pervenuto, in una novelletta assai piccola”.

La vicenda è ambientata in Romagna, dove messer Lizio di Valbona (personalità realmente esistita e menzionata da Dante nel XIV canto del Purgatorio), uomo di nobili costumi, abita con la famiglia: la moglie madonna Giacomina e la figlia Caterina. I due genitori sono molto affezionati alla figlia adolescente e sperano di maritarla vantaggiosamente. Accade che il giovane Ricciardo, di bell’aspetto e ottima famiglia, durante una visita alla casa di messer Lizio si innamori di Caterina, “giovane bellissima e leggiadra e di laudevoli maniere e costumi”: tuttavia , impacciato e timido a causa della giovane età, coltiva il suo sentimento di nascosto senza rivelarlo alla giovane, finché anch’ella. scoprendo l’amore di Ricciardo per la sua persona, arriva a ricambiarlo ferventemente. Finalmente, in un concitato dialogo, molto somigliante a una pièce teatrale, i due organizzano ansiosamente il loro primo incontro d’amore. D’accordo con l’amato, Caterina persuade Lizio e Giacomina a concederle il permesso di dormire sulla terrazza sovrastante il giardino, di modo da permettere al giovane di raggiungerla non appena i genitori si fossero coricati e di poter passare con lei la notte. Lo stratagemma ha buon esito, nonostante qualche esitazione del padre, che per un momento pare avere inteso l’inganno e il giorno successivo gli amanti dormono insieme fino al mattino seguente. Il padre però, recandosi in terrazza vede i due amanti coricati in un atteggiamento inequivocabilmente confidenziale (da cui il titolo del racconto): attende il loro risveglio e minaccia il giovane di morte se non dovesse accettare la mano della figlia. Tuttavia il tono del vecchio è del tutto privo di rabbia: dalle sue parole traspare la sua calma, spiegabile per l’inespressa sicurezza circa il consenso del ragazzo. Infatti, Ricciardo si dichiara pronto a sposare Caterina e il fidanzamento viene concretizzato seduta stante: solo allora i due giovani vengono di nuovo lasciati soli.

Boccaccio propone nella novella qui analizzata un sistema di valori che si discosta dai precedenti, pur presentando con essi aspetti comuni. L’amore tra i due giovani non nasce all’improvviso, suggerito da una passione momentanea, bensì dopo una lunga riflessione da parte di Ricciardo, che più volte rimane colpito dalla bellezza e dalle “laudevoli maniere” della ragazza. Il sentimento è quindi suscitato e accresciuto dalla vista e dalle maniere cortesi dell’amata: Andrea Cappellano, nel De Amore, aveva così definito il sentimento amoroso: “una passione istintiva che nasce dalla visione e dalla sovraeccitazione immaginativa per la bellezza dell’altro sesso”. L’innamoramento di Ricciardo, quindi, rispetta le fasi ed i comandamenti citati dall’autore del De Amore; inoltre, anche se i giovani amanti sono entrambi appartenenti alla sfera sociale borghese, vengono definiti con aggettivi tipicamente cortesi ad indicare la loro nobiltà d’animo. Il processo d’innamoramento e il successivo incontro d’amore tra i due ragazzi ricorda del resto il racconto dell’amore fra Ginevra e Lancillotto, narrato da Chrètien de Troyes: il cavaliere si innamora della regina osservandola dalla finestra e non appena appreso che il suo amore è ricambiato dalla donna, è deciso a tutto pur di raggiungere la camera dell’amata. Tuttavia tra i due testi si possono riscontrare alcune differenze, importanti soprattutto per definire lo schema di valori boccacciano: Lancillotto e Ginevra “di villania né di viltà discorso alcuno o accordo fanno” e a lungo si limitano a congiungere le loro mani separati da una grata; nel discorso tra Ricciardo e Caterina, invece, sebbene il linguaggio sia implicito e allusivo, è evidente sin da subito, non appena viene svelato l’amore dei due, la finalità di tale dialogo, che porterà i due amanti ad organizzare l’incontro all’insaputa dei genitori.
Il sentimento amoroso nella novella in questione si discosta dunque da quello del romanzo cortese, pur conservandone alcuni aspetti: sebbene l’amore tra Ricciardo e Caterina non nasca all’improvviso e venga alimentato dalla bellezza e dalla contemplazione dell’amata, tuttavia i due giovani pongono a tale sentimento conclusioni affrettate e precipitose, dettate dalla loro giovinezza e dall’impeto del sentimento stesso. Un taglio da commedia, appunto, a fronte della tragicità della vicenda di Ginevra e di Lancillotto.
Un simile discorso vale anche per il confronto con i valori stilnovistici; secondo questi ultimi infatti il sentimento amoroso necessita di essere coltivato fino all’elevazione e all’idealizzazione della donna, cui va la totale devozione dell’amante, il cui sentimento si indirizza verso una creatura priva di corporeità, in grado di salvare l’uomo. La concretizzazione di tale pensiero è riscontrabile in opere dantesche quali la Vita Nova e la Commedia dove Beatrice, appare inarrivabile per il poeta che prova per lei un amor de lohn (“amore da lontano”) destinato a non concretizzarsi mai.
Evidente il cambiamento di tono nella novella di Boccaccio: in essa infatti  l’amore trova riscontro soprattutto come attrazione fisica e come atto sessuale piuttosto che come venerazione della donna idealizzata. Non è da dimenticare inoltre che la novella è ambientata in Romagna, patria dello sfortunato amore fra Paolo e Francesca narrato nel canto V dell’ Inferno; i due commettendo adulterio vengono uccisi dal marito di Francesca e sono dannati per sempre, mentre Ricciardo e Caterina, amanti più fortunati, perché più moderni, riescono nel loro intento, anche se devono accettare che il loro amore nascosto venga ufficializzato non tanto con un rito religioso, quanto piuttosto con un accordo economico vantaggioso.




Se per la morale cattolica è peccato avere rapporti prematrimoniali, nella novella i due giovani non si pongono neppure il problema, come del resto i genitori: il padre della ragazza prova infatti quasi simpatia e complicità nei confronti dei due amanti che, inconsapevoli di essere stati scoperti, dormono abbracciati sulla terrazza: Ricciardo è per sua figlia un buon partito, il loro matrimonio, un buon affare per tutti. E questo basti.

Agatha Bottinelli Montandon

lunedì 29 ottobre 2012

Decameron, VII, 3: Calandrino e l'elitropia



Decameron, VIII Giornata, 3^ novella
L’Ottava Giornata del Decameron, di cui regina è Lauretta, ha per tema le beffe fatte o da una donna a un uomo, o da un uomo a una donna, o da un uomo a un altro uomo.La novella di Calandrino e l’elitropia è narrata da Elissa, che prende la parola una volta conclusa la storia raccontata da Panfilo.
La trama
È possibile suddividere il racconto in tre momenti: il primo ambientato nella chiesa fiorentina di San Giovanni; il secondo si sviluppa sulla riva del Mugnone e sulla strada che porta dal fiume in città; il terzo, infine, si svolge all’interno della casa di Calandrino.
Il primo momento è caratterizzato dall’incontro tra Calandrino e Maso del Saggio, giovane burlone molto noto in città, deciso a prendersi gioco del «dipintore» ingenuo che gli sta davanti.
Con frasi allusive e talora senza senso, che dicono negando e spesso contengono un doppio messaggio, Maso convince Calandrino dell’esistenza del paese di Bengodi e dell’elitropia.
Il primo è una sorta di “paese della cuccagna”, in cui vi è da mangiare e bere a volontà (il narratore parla esplicitamente di «montagne di parmigiano» e «fiumi di vernaccia») e dove ogni cosa è venduta ad un prezzo più che vantaggioso; l’unico impedimento è che dista «più di millanta», come scherzosamente dichiara il beffatore. L’elitropia, invece, è una pietra preziosa, di colore nero, la quale fa sì che «qualunque persona la porta sopra di sé, mentre la tiene, non è da alcuna altra persona veduto dove non è». Per il lettore e ogni altro uomo avveduto, è normale che una persona “non sia veduta dove non è”, ma non è così chiaro a Calandrino, che è convinto di aver trovato la pietra che dona l’invisibilità.
Pertanto egli corre immediatamente dai suoi due amici, anch’essi pittori, Bruno e Buffalmacco, i quali, dopo aver ascoltato la notizia ed il progetto di Calandrino, non si lasciano scappare l’occasione di burlarsi del loro amico credulone.
Si alza così il sipario della seconda scena: è domenica mattina e i tre uomini si dirigono verso il Mugnone, luogo in cui l’elitropia, secondo quanto riferito da Maso del Saggio, abbonderebbe.
E Calandrino, che non può non credere ad un uomo così saggio, comincia a riempirsi le tasche di pietre nere, infilandole persino nei lembi sollevati della gonnella che indossa. Ad un certo punto, Bruno e Buffalmacco danno inizio alla loro beffa: cominciano a guardarsi intorno e fingono di non notare più Calandrino, facendogli così credere di aver raccolto davvero l’elitropia ed essere diventato invisibile. Il pittore, carico di sassi ma soddisfatto, decide allora di avviarsi sulla strada del ritorno, naturalmente seguito dai suoi due amici, i quali, facendo finta di essere infuriati con l’amico svanito nel nulla, cominciano a scagliargli addosso sassi. A confermare la convinzione di Calandrino di essere diventato invisibile, il fatto che nessuno di coloro che lo incontra gli rivolga un cenno di saluto, nemmeno i gabellieri della porta di San Gallo, che in realtà si erano precedentemente accordati con Bruno e Buffalmacco.
Infine i tre giungono in città: Calandrino entra in casa e viene immediatamente rimproverato dalla moglie, monna Tessa, per essere arrivato in ritardo e per aver scaricato in casa tutti i sassi che ha portato con sé. Ma Calandrino, credendo che la moglie sia colpevole di averlo privato del dono dell’invisibilità, non riesce a trattenere la rabbia e la sua stizza è tanto grande quanto la forza della sua precedente illusione. Si scaglia, perciò, contro la moglie e la picchia finché non giungono i due compari, i quali salvano Tessa da ulteriori botte, continuando però a schernire l’amico. Infatti, dopo avergli ironicamente domandato se sia intenzionato a costruire un muro con tutti quei sassi, lo accusano di aver commesso due errori: pur sapendo che le donne fanno perdere ogni virtù agli incantesimi, si è presentato di fronte alla moglie; e in secondo luogo ha ingannato gli amici e per questo Dio lo ha punito. Così Calandrino, che si sente colpevole del suo stesso danno, subisce una seconda beffa.

CONFRONTO CON IL MONDO MEDIEVALE
Ø     I PERSONAGGI
·         Calandrino, considerato da F. Betti[1] «il personaggio più comico del Decameron», è l’immagine del “contadino inurbato”, che giunge in città credendo di trovare il guadagno facilmente (già Dante rimproverava ai suoi contemporanei quest’avidità e brama di ricchezza), ma che in realtà è guardato con compassione dai cittadini e diviene vittima delle beffe dei suoi colleghi fiorentini.
Calandrino e' inoltre “il grullo”, la “vittima del destino”: vive, infatti, un continuo rovesciamento di ruoli, da presunto ingannatore a vittima, portatore di una falsa astuzia che sconfina in una sciocca malizia. Tuttavia sarebbe riduttivo definirlo semplicemente “uno sciocco”, infatti la sua figura non è affatto priva di complessità. Pare quasi un rappresentante dei caratteri tipici degli uomini medievali, come la scarsa istruzione, l’ingenuità, la misoginia (che, peraltro, contraddistinguerà anche Boccaccio nella seconda parte della vita). Tralasciando il suo aspetto più comico e credulone, Calandrino, come afferma anche la scheda di presentazione dello spettacolo Le novelle di Calandrino, Bruno e Buffalmacco messo in scena dalla “Compagnia delle Stelle”[2], è ritenuto «l’antieroe» del Decameron in quanto emergono in lui valori come l’ingordigia, l’ira, la cattiveria e il desiderio di realizzarsi pur a discapito del prossimo (basti pensare alla forza con la quale picchia la moglie).
·         Bruno e Buffalmacco stanno agli antipodi rispetto alla figura di Calandrino: loro, infatti, sono i portatori delle nuove qualità dell’uomo borghese. Il gusto dello scherzo è in loro fine a se stesso, costituisce una prova della loro intelligenza, della loro abilità nel parlare e nel convincere, della loro superiorità rispetto agli uomini dell’epoca precedente. «Essi mostrano la nascita dell’individualismo borghese – sostiene Luperini[3] – esaltato nei valori della prontezza di spirito e della capacità di approfittarsi della dabbenaggine altrui».
Ø     ALTRE TEMATICHE
·         L’attenzione ai beni materiali appare in controtendenza rispetto a ciò cui si mirava durante il Medioevo: in quei secoli, infatti, nessuno si sarebbe permesso di celebrare un paese come Bengodi o di invitare a sfruttare le proprietà delle pietre preziosi per il fine dell’arricchimento.
·         Il valore dei lapidari, di estrema importanza durante il Medioevo, viene quasi ridicolizzato nella novella.
·         I personaggi appaiono privi di morale: Calandrino picchia la moglie, Maso del Saggio si diverte nel prendersi gioco del prossimo, Bruno e Buffalmacco sono così spietati da illudere il loro amico e non intervenire mentre picchia la moglie.
Per concludere, si può affermare che la novella di Calandrino e l’elitropia è fra le più significative del Decameron perché in essa, pur richiamando elementi medievali (Calandrino), rappresenta la nascente classe borghese rinascimentale (Bruno e Buffalmacco), ma al tempo stesso provoca riflessioni sempre attuali. Come, infatti, sostiene la ricercatrice e studiosa di letteratura Maria Alberta Faggioli Saletti[4]: «Che dire della modernità della beffa? Per la sua raffinatezza, questo meccanismo è solo in parte d’attualità, in tempi in cui abbiamo solo notizie di beffe ben poco fantasiose, degenerate in rozzi inganni o in vere e proprie truffe con facile arricchimento a danno di vittime indifese».
A cura di Eros Robba




[1] (Franco Betti, Calandrino eroe sfortunato. Aspetti del realismo boccacciano, in “Italica”, LIV, 1977, pp. 512-520)
[2] http://www.lacompagniadellestelle.it/produzione.asp?var=4
[3] R.Luperini, P.Cataldi, il nuovo LA SCRITTURA E L’INTERPRETAZIONE, Palumbo Editore, 2012, pag.559
[4] Maria Alberta Faggioli Saletti, Calandrino personaggio comico del DECAMERON di Giovanni Boccaccio, post n° 128 pubblicato il 21/08/2008 su spigolature.it

domenica 21 ottobre 2012

Decameron, X, 10: Novella di Griselda



Decameron, X, 10: re Panfilo e Dioneo narratore

La novella di Griselda è la decima novella della decima giornata, “nella quale, sotto il reggimento di Panfilo, si ragiona di chi liberamente ovvero magnificamente alcuna cosa operasse intorno a’ fatti d’amore o d’altra cosa”-

Tocca a Dioneo raccontare la storia del marchese di Saluzzo, Gualtieri, il quale, su invito di amici e vassalli, si decide a prendere moglie. La sposa da lui scelta è però Griselda, la figlia di un contadino, che ha attirato il nobile per la sua bellezza, nonostante le sue umili origini.
Dopo il matrimonio però il marchese comincia a mostrare la sua “matta bestialità”: egli infatti, pur amando Griselda, che si mostra perfettamente all’altezza del suo ruolo, non perde occasione per mettere alla prova il suo carattere e la sua solidità morale.

Dopo qualche tempo, fra le acclamazioni di giubilo generali, Griselda partorisce una bambina: dapprima Gualtieri si mostra molto felice, ma poi, per provare ulteriormente la pazienza e la capacità di sopportazione della moglie, le riferisce che i sudditi sono scontenti di lei poiché, nonostante le nobili nozze, resta comunque la figlia di un contadino. Griselda dà atto di estrema sottomissione al marito,  ammettendo di non essere degna “dell’onore al quale tu per tua cortesia mi recasti”.
Dopo qualche tempo Gualtieri ordina che un famiglio vada a prendere la figlia dalla madre, riferendole la decisione del marito di ucciderla: la donna, seppur addolorata, accetta senza discutere che la figlia le venga sottratta. In verità la figlia non viene uccisa, ma viene inviata dal padre a Bologna presso una sua parente, perché la faccia crescere bene,  educata e obbediente.
Nel frattempo Griselda ha un secondo bambino, ma Gualtieri, pur essendo molto felice, volendo nonostante tutto continuare a saggiare la forza della pazienza della sua donna, replica il proprio crudele comportamento. Ancora una volta Griselda accetta che il figlio le venga sottratto per essere ucciso. Tuttavia, come già accaduto in precedenza, il padre invia a Bologna anche il figlio, assieme alla sorella.
Dopo parecchi anni di sofferenze e di umiliazioni, Gualtieri decide che è il tempo di sottoporre la moglie a un’ultima prova: le fa credere che intende ripudiarla per sposare una giovane, che in realtà è la figlia dei due, rientrata a corte ormai giovinetta.
Gualtieri chiede a Griselda di preparare le stanze dove dovrebbe alloggiare la sua futura moglie, e la donna, anche se con un gran peso sul cuore, accetta anche questo compito gravoso.
Alla fine della novella Gualtieri svela a Griselda che la donna è loro figlia, che il suo fratellino è loro figlio e che non  ha alcuna intenzione di cacciarla. Per Griselda  finalmente cessano i tormenti, anche se Dioneo, maliziosamente allude al fatto che forse la donna ha sopportato fin troppo e che, forse, avrebbe fatto bene, a suo tempo, a cercarsi un altro amante.

Il fatto che la novella occupi la centesima posizione nel Decameron, dunque una posizione di evidente rilievo, ha  reso quasi naturale il confronto con la prima novella della prima giornata, dedicata a Ser Ciappelletto. Lo studioso V. Branca[1] sviluppa l’idea di un  antitesi fra le due figure e i valori che essi portano in scena nelle loro novelle. A suo parere la X giornata è “l’epilogo magnifico e fiabesco” del Decameron, in cui si celebrano i più alti valori umani e virtù come la Fortuna,  l’Amore e l’Ingegno, tutte nel personaggio di Griselda, che per questo assume tratti quasi sovrumani: ma ciò che colloca Griselda al di sopra di tutti gli altri personaggi del Decameron è la Virtù, grazie alla quale ella è assimilabile alla più alta di tutte le creature femminili, cioè Maria.
Ser Ciappelletto, invece, viene da Branca paragonato a Giuda, in quanto rappresentazione massima dei vizi: “il prototipo della malvagità, l’unico uomo secondo la tradizione sicuramente precipitato in inferno”. Nella novella a lui dedicata Boccaccio si serve di uno stile “comico”, ingiurioso, fosco e sarcastico, antitetico a quello invece utilizzato nell’ultima novella, “tragico”, elevato, eroico e encomiastico.

Tuttavia alcuni elementi mostrano una certa incoerenza nel testo: la completa e a volte sconcertante sottomissione di Griselda e l’implacabile spietatezza di Gualtieri sono infatti portate ai massimi livelli, tanto da rendere le loro caratteristiche principali decisamente poco credibili.  Anche Carlo Salinari[2] ritiene che i due personaggi siano assolutamente al di fuori di ogni limite umano per essere credibili. A suo parere in questa novella confluisce l’amore di Boccaccio per la tradizione letteraria precedente e i loro esponenti, che si rispecchia nello stile decoroso e solenne dell’intera giornata. Proprio a ciò si deve, a suo parere, il carattere eccessivamente astratto degli ambienti, la mancanza di scavo psicologico dei personaggi, l’idealizzazione delle vicende vissute, sempre più inverosimili: le sofferenze inferte dal marchese a Griselda non sarebbero altro che un gioco intellettuale. E anche se Boccaccio tenta di porre rimedio a questi sentimenti disumani con alcuni tratti di “stentata umanità” , essi ottengono, paradossalmente l’effetto di rendere i personaggi quasi più disumani e i loro gesti assolutamente privi di senso.


Il tentativo boccacciano di conciliare gli antichi valori cortesi con quelli della borghesia, tanto disprezzata da Dante nelle sue opere, si coglie nel testo dall’alternarsi dello stile, elevato per buona parte del testo e comico nel finale, e dal fatto che Griselda, già portatrice delle qualità che caratterizzano il suo ceto sociale (pazienza, tenacia e sopportazione delle fatiche), accresca le sue doti quando viene a contatto con il mondo nobiliare: diventa più bella e graziosa, disinvolta, cordiale e signorile.


Se guardiamo alla novella secondo la prospettiva della cultura cortese, la novella mostra una posizione di decisa opposizione rispetto ai modelli precedenti: nella novella non c’è rispetto per la figura della donna, che viene trattata nel peggiore dei modi dal marito, non è presente il tema del corteggiamento né quello del vassallaggio d’amore: Gualtieri, infatti, va contro alcuni dei comandamenti di Amore che Andrea Cappellano aveva individuato nel De Amore, come “Ricordati di evitare soprattutto le menzogne” e “Sii sempre cortese e civile”.



Rachele Parodi


[1] Boccaccio medievale e nuovi studi sul Decameron, Sansoni.
[2] Prefazione alla Decima giornata, in G. Boccaccio Decameron, Editori Riuniti.

martedì 16 ottobre 2012

Decameron, IV, 1: Tancredi e Ghismunda



 Decameron, IV, 1: Tancredi e Ghismunda
Durante la quarta giornata, dedicata alle storie di amori infelici,di cui è re Filostrato,  Fiammetta narra come prima novella la triste storia che ha per protagonisti Tancredi e Ghismunda: essa contiene non solo una storia amorosa intensa ma anche drammatica e crudele, e figure di profonda controversia psicologica, tali da fornire i presupposti per un’analisi di tipo psicoanalitico.
Tancredi, principe di Salerno, viveva nel suo palazzo insieme alla figlia Ghismunda, come lui rimasta vedova. Essendo una giovane donna molto saggia e di bellezza rara, la giovane aveva molti spasimanti, ma il padre non le permetteva di risposarsi. Tra Ghismunda e Guiscardo, giovane nobile d’animo ma purtroppo non di casato, nacque però un tenero ardore e i due innamorati iniziarono a incontrarsi segretamente nella camera della principessa. Un giorno il re, come era solito fare, si recò nella camera della figlia per trascorrere del tempo con lei, ma non trovandola si mise sotto le coperte dove si addormentò. Arrivarono poi Ghismunda e Guiscardo i quali, non accorgendosi della presenza del re, tennero il loro consueto atteggiamento amoroso. Tancredi, al momento, decise di non manifestare la sua presenza, ma il giorno seguente fece arrestare il giovane e andò dalla figlia pretendendo da lei delle spiegazioni: ella difese con forza e coraggio il suo amore, senza mai appellarsi alla benevolenza del padre né chiedendone il perdono.  Tancredi il giorno seguente decise di uccidere Guiscardo e di far recapitare il suo cuore in una coppa a Ghismunda: la donna, straziata dal dolore per la perdita, decise di suicidarsi bevendo il veleno dalla stessa coppa inviatagli dal padre.
La novella racconta una vera e propria tragedia, caratterizzata da personaggi complessi e moderni, nei quali possiamo ritrovare temi cari al Boccaccio, comprendendo quanto profondamente, attraverso di loro,l’autore sia stato in grado di svolgere un’approfondita analisi psicologica.
Ghismunda, donna giovane, bella e arguta, è tragica del racconto: ella ha un carattere passionale, ma anche fermo e razionale. Tale personaggio, durante il suo lungo discorso diretto al padre, affronta alcune tematiche fondamentali per il pensiero boccaciano: Infatti ella ritiene che non si possa disobbedire al desiderio amoroso dettato dalla natura e che dunque non sia da giudicare come peccato l’amore suo e di Guiscardo, essendo questo  un “ natural peccato”, di cui non si pente. Nel suo discorso ella inoltre difende a oltranza l’animo dell’amato:  egli, pur essendo per volere del caso nato umile, era nobile tanto quanto, o forse anche di più, coloro che erano considerati tali per diritto di nascita. Attraverso tali argomentazioni, Ghismunda affronta i concetti di ‘fortuna’ e ‘natura’, ‘nobiltà’ e ‘virtù’, centrali appunto nell’ ideologia di Boccaccio.
Tancredi è un uomo buono che però diventa, all’apparenza in modo incomprensibile, un feroce omicida, responsabile anche del suicidio della sua stessa figlia. Un’interpretazione psicoanalitica, messa a punto dallo studioso Carlo Muscetta [1], definirebbe il sentimento di Tancredi verso la figlia ‘incestuoso’. Fin dall’inizio il testo ci informa che Tancredi e Ghismunda si trovano entrambi vedovi: ma il padre, a differenza della figlia, concentrando tutti i suoi affetti sulla figlia e  reprimendo tutti i suoi impulsi erotici, di cui non è neanche pienamente consapevole, fa della giovane l’oggetto della sua ossessione. Essa esplode quando egli scopre la relazione della giovane e viene colpito da una follia gelosa e crudele, caratterizzata da una debolezza quasi infantile e da una violenza senile. 
L’autore non si concede di rappresentare il superamento da parte di Tancredi della soglia del tabù, ma comunque, attraverso la descrizione dell’abitudine dell’uomo di riposare con la figlia, si dimostra attento a problematiche e patologie amorose che verranno affrontate solo nel ‘900 in ambito psicoanalitico.
In tale racconto l’amore tra i due giovani viene presentato nella sua completezza, e non come semplice impulso sessuale e fisico, come si può ricavare dall’unica e sentimentale frase pronunciata da Guiscardo “ l’ amore può più che né io né voi possiamo”.


[1] Da C. Muscetta,,Giovanni Boccaccia e i novellieri, in AA.,VV., il trecento, in Storia della letteratura italiana,, diretta da E. Cecchi e N. Sapengo , Garzanti, Milano 1987. pp 420-421

 Gioia Fertonani

Decameron, IX, 2: La novella della badessa e delle brache

Decameron, IX, 2: La novella della badessa e delle brache

Nella seconda novella della nona giornata del Decameron, ossia quella nota come “la novella della badessa e delle brache”, Boccaccio narra le vicende delle  monache di un convento lombardo che si trovano a fare i conti con illecite passioni amorose.
La bella e giovane monaca Isabetta, innamoratasi di un giovane che le aveva fatto visita al convento, escogita con lui un modo perché si possano incontrare e vivere, anche se segretamente, il loro amore. Una notte accade, però, che le altre monache scoprano gli incontri dei due e decidano di organizzarsi affinché la badessa li colga sul fatto e punisca Isabetta. La prima notte in cui i due giovani si incontrano, esse vanno a chiamare la badessa Usimbalda che però, a sua volta, sta incontrandosi segretamente con il suo amante, un prete.
La badessa, messa al corrente di quanto accaduto, si riveste in fretta al buio, indossando così le brache del prete al posto del saltero e fa poi irruzione nella cella di Isabetta. La giovane è condotta alla presenza di tutte le monache e viene aspramente rimproverata dalla badessa che ancora non si è resa conto, come del resto le altre monache, di cosa porti sulla testa. L’insolita cuffia viene però notata da Isabetta, che con una battuta arguta, “Madonna, io vi priego che voi v’annodiate la cuffia; poi dite a me ciò che vi piace”, riesce a far notare alla badessa, e quindi anche alle altre donne, l’imbarazzante situazione in cui si trova. La badessa, consapevole di essersi macchiata della stessa colpa che rimprovera alla giovane, non tenta più di negare, ma, anzi, invita tutte le altre monache a rispettare e a soddisfare i propri impulsi naturali.

I temi cardine di questa novella sono due: la polemica contro l’ipocrisia dominante nella vita religiosa e la rivendicazione dei diritti della natura. Attraverso essi Boccaccio sviluppa la sua personale visione della morale e della vita: egli non è sconvolto né scandalizzato dagli amori illeciti delle suore, mentre ridicolizza chi, come la badessa Usimbalda, finge di ignorare che gli impulsi sessuali appartengono a tutti gli esseri umani. Tale prospettiva può essere considerata un passo avanti verso quella che si può definire come una vera e propria rivoluzione rispetto ai valori medievali. Se, infatti, Dante aveva condannato Paolo e Francesca alle pene dell’Inferno a causa della loro passione, Boccaccio, invece, non biasima né demonizza il comportamento tenuto dalle monache, cercando piuttosto un punto di equilibrio tra le regole della morale e gli effettivi comportamenti umani.
Anche Giuseppe Petronio[1], ritico letterario italiano, ha analizzato questa novella del Decameron prendendo in considerazione la morale boccacciana e l’intento comico dell’autore stesso.
Egli dimostra che il Boccaccio, proprio perché non condizionato dagli ideali medievali e dai comuni pregiudizi, riesce nell’intento di caricare comicamente alcuni personaggi, in particolare quello della badessa, godendosi egli stesso i ridicoli momenti che caratterizzano il racconto.
In conclusione possiamo quindi affermare che Boccaccio attraverso questa novella celebra con scioltezza la gioia di godersi la vita anche nelle situazioni più assurde e paradossali, superando così le barriere imposte dal pregiudizio e dal pensiero comune del Medioevo.


[1] Da G. Boccaccia, Decameron, a cura di G. Petronio, Editori Riuniti, Roma 1980, pp. 738-739.

Beatrice Ballabio e Selene Fassina
   
                 

Decameron, III, 2: Lo stalliere del re Agilulfo

Decameron, III, 2: Lo stalliere del re Agilulfo

La novella che ha per protagonisti Agilulfo e il suo stalliere è la seconda della terza giornata, il cui tema è il potere dell’ingegno: la narratrice è Pampinea.
La novella narra di uno stalliere del re longobardo Agilulfo, che, innamorato della regina Teodolinda e credendosi in qualche modo oggetto di particolari attenzioni, cerca il modo di giacere con costei.
Lo stalliere è umile e di bassa condizione, ma è dotato di grande industria, che gli permettere di soddisfare il suo desiderio e poi di salvarsi da morte certa.
Lo stalliere, infatti, osserva per molte notti il comportamento e la tenuta del re quando si reca nella stanza della regina: il re veste una tunica e porta con sé una verghetta con cui bussa alla porta, e una torcia. Dunque una sera lo stalliere decide di vestirsi come il re e comportandosi esattamente come lui riesce ad accedere alla stanza della regina e a giacere con la donna, del tutto ignara dello scambio. Dopo che lo stalliere è andato via, come ogni sera arriva alla porta della camera il re, e la regina, stupita di vederlo di nuovo alla sua porta, gli chiede il motivo di tanto ardore amoroso. Il re comprende immediatamente che un altro uomo ha approfittato di sua moglie e decide di cercare immediatamente il responsabile di tale oltraggio. Mentre tutti sono immersi nel sonno, cerca e trova con successo la persona che ha giaciuto con sua moglie, auscultando con attenzione la rapidità del battito cardiaco di tutti gli uomini presenti nel palazzo, e fa in modo di poterla riconoscere la mattina seguente tagliandoli i capelli. Ancora una volta lo stalliere, accortosi dello stratagemma del re, dà prova del suo ingegno e taglia a tutti gli altri abitanti del castello i capelli allo stesso modo in cui il re aveva fatto con i suoi. Il mattino seguente il re non può più riconoscere il responsabile del tradimento e decide di lasciar correre per quella volta, ma al tempo stesso di intimare indirettamente al colpevole di non commettere mai più il suo gesto.


Analisi
Secondo il critico letterario Mario Alicata[1] in questa novella assistiamo al superamento del mondo feudale, il quale cede il passo ad una nuova e singolare ideologia, di cui lo stalliere è il “rappresentante”. Egli, infatti, riesce a prevalere sul re Agilulfo, portatore dei valori cortesi, costretto a “togliersi il cappello” dinnanzi all’astuzia del seduttore della moglie. In particolare, sono due i temi che Boccaccio rielabora dalla letteratura cortese precedente: l’amore e l’innamoramento, e la nobiltà d’animo e di sangue.
L’amore e l’innamoramento nella letteratura precedente al Boccaccio erano soprattutto di natura spirituale:  nell’amore confluivano aspetti istintivi e passionali e altri legati all’immaginazione e alla riflessione, come sosteneva Andrea Cappellano nel De Amore: «L’amore è una passione istintiva che nasce dalla vista e dalla sovraeccitazione immaginativa per la bellezza dell’altro sesso».
Di qui l’importanza della vista dell’amato/a, ma anche dell’astrazione fantastica e dell’immaginazione nella relazione amorosa. Nella prospettiva boccacciana, invece, l’amore assume un valore molto più terreno e carnale, che comporta anche un soddisfacimento fisico: ciò accade allo stalliere che non riesce a resistere al desiderio per la moglie del re, pur sapendo di esporsi al rischio della vita.
Lo stalliere per raggiungere il suo scopo si serve di un elemento innovativo nella letteratura, introdotto da Boccaccio, l’ingegno, non più inteso come un elemento potenzialmente peccaminoso, quanto piuttosto come uno strumento che permette di contrastare la cattiva fortuna, ma anche in parte, di controllare la natura.

Entrambi i personaggi principali della vicenda, lo stalliere ed il re, lo possiedono, anche se in modo diverso. L’autore lo evidenzia soprattutto nel primo: lo stalliere, infatti, riesce sia a giacere con la moglie del re per mezzo di un’astuta trovata, sia poi a salvarsi la vita. Il re d’altra parte dimostra di essere dotato di ingegno sia quando decide di non svegliare subito il colpevole sia quando escogita il taglio dei capelli del colpevole per poterlo riconoscere il giorno seguente. Ne consegue il ribaltamento del concetto stesso di nobiltà: se in ambiente cortese la nobiltà d’animo era sempre accompagnata dalla nobiltà di sangue, ora tale associazione viene superata. Infatti lo stalliere, seppure umile e di bassa condizione sociale, dimostra di essere intelligente e di animo elevato: un uomo e un amante alla pari del sovrano stesso.


[1]  M. Alicata, Prefazione alla Terza giornata, in G. Boccaccio, Decameron, Editori Riuniti, Roma 1980, pag. 218-219
Marco Borromini e Davide Lietti

giovedì 17 maggio 2012

La raccolta di novelle

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Il Decamerone

 I giovani protagonisti del Decameron in un dipinto di John William Waterhouse, A Tale from Decameron, 1916, Lady Lever Art Gallery, Liverpool




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